Nero d'Ombra

Registrazioni rapide, appunti - con un'apparenza di immediatezza, di casualità, dove il « non finito » (che in alcune delle opere di Nicola Salvatore, non senza ironia, ha origine dal finito, per esempio da modelli così storicizzati da aver raggiunto uno stadio di totale consunzione) assume valore non tanto di momento di una scomposizione presunta quanto di un'ipotesi o rilettura à rebours. E, nel transito, bloccata. L'operazione si attua sul crinale fra immagine figurale e scrittura, senza decidere la direzione della caduta possibile, e si avvale di una sorta di principio di sollecitazione fantasmatica avviata a resuscitare il senso di un evento nel suo farsi (che non si farà) - da ciò che è dato e definito (la «cosa» anche come oggetto estetico) a ciò che era prima, una tela bianca, uno spazio. In un meccanismo che mentre spinge l'immagine verso la superficie, estrovertendone gli elementi compositivi, sembra annegarla perché torni ad essere latente, possibile, come se fosse la più appropriata alla sua riconoscibilità. Esempio: come prendere il mastro cappellaio di Alice e darne solo il suo vuoto, la sua ex-presenza, un interno che equivale allo spazio, ingannando col suo profilo il concetto stesso di spazio (vuoto? pieno?), e, dopo averne spostata la figura altrove, affermare categoricamente che esso, il soggetto cappellaio, non si trova là ma dove prima non era (dove prima era, per riflesso), in una successione che è indizio inevitabile non più di corpo o figura ma di spazio, cioè tempo. Da cui, anche, la continua frammentazione, lo smontaggio, e il nuovo ordine con il quale ogni elemento, riletto, rifatto viene disposto, con allusione a tavole di fittizio rigore didattico. Che poi il gioco ironico si rovesci in indagine e questa si muti in scrittura non stupisce - il favolistico, compreso quello delle balene, ne dipende in modo diretto.

Roberto Sanesi