Ciclopica

Ciclopico. Derivato da Ciclope, razza di mitici giganti sconfitti nella lotta con gli dei dell'Olimpo. Opera c.: manufatto di proporzioni vastissime e colossali; impresa c.: azione o serie di azioni di portata ampia e definitiva, dagli esiti importanti e sostanziali; mura c.: cinte murarie di epoca protostorica nell'area mediterranea, attribuite nell'antichità ai Ciclopi, formate di massi giganteschi rozzamente sovrapposti gli uni agli altri.

Perchè definire con questo aggettivo l'opera plastica di Nicola Salvatore? Oppune, perchè non attribuire questa qualità a tutti gli scultori che agiscono su scala monumentale ? Al contrario della rozzezza dei giganti preolimpici, l'aggettivo che ne definisce le azioni e ne qualifica i manufatti ha assunto nel tempo sfumature sottili, che lo differenziano molto dai quasi sinonimi come "gigantesco", “enorme” o "colossale". Innanzi tutto, la suggestione che quella parola porta con se ha a che fare con l'arcaicità, che a sua volta non è soltanto il nome colto di una antichità ancora più antica - se così si può dire -, ma di un antichità "originaria"' e, aggiungiamo, mediterranea, che l'artista, per nascita e per cultura, si porta con sé, nonostante la lunga pratica operativa in una città storicamente "astratta" e razionalista come Como. Le opere di Salvatore posseggono questa originarietà, ammantata di arcaismo: nonostante siano realizzate in impianti siderurgici all'avanguardia, e il cilindro di ferro che costruisce il perimetro esterno dell'opera sia una sezione di una condotta che altrimenti avrebbe portato magari il petrolio da un continente all'altro, ogni sua scultura assomiglia di più a un "segno" o a uno strumento che viene da civiltà lontane, piuttosto che al prodotto di tecniche d'assemblaggio moderne e di materiali modernissimi, come il corten, una lega a base di acciaio ad ossidazione programmata. Merito, questo, della forza evocativa dei segni che si trasformano in oggetti, e che suggeriscono questa originarietà attraverso la loro disarmante semplicità. Penso a sculture come "Grande mestolo", "Arpione", "Gancio", "Sole dentro", molte delle quali esposte in un luogo mitico acnh'esso, ma di una mitologia rinascimentale, com'è l'orto botanico, diretto discendente del "giardino dei semplici'' alchemico e officinale: la struttura dell'opera è semplice, un oggetto viene inscritto in un cerchio, e così facendo resta isolato dal contesto, viene enfatizzato nella sua funzione sino ad assumere un significato simbolico, diventa un oggetto che è anche il simbolo di se stesso. Ogni opera diviene così una sorta di gigantesco segnale che porta in se qualcosa di araldico e di barbaro insieme, qualcosa di "ciclopico". Perchè un arpione, o un pendolo (quest'ultimo purtroppo non in mostra)? E perchè un mestolo, che con la sua qualifica di '"grande", in altri casi rischierebbe una specie di comicità involontaria? E quel gancio che è così attuale eppure così antico?...Di fatto, è proprio la scelta di mettere in scena strumenti così comuni, ma così essenziali, a fornire ogni opera di Salvatore di quel senso di arcaicità di cui si parlava. Tutto riporta a tui epoca mitica e al senso quasi sacrale di cui ogni oggetto si caricava, prima ancora di essere mio strumento d'uso: macchine semplici, strumenti che, ogniqualvolta venivano usati, riportavano al senso del gesto originario, della funzione ritale che aiutavano ad esplicare: il mestolo è il bere, l'arpione il pescaie, l'obelisco la prima forma eretta, orgoglio maschile appena nascosto sotto uma forma comunque fallica, In questo senso la dimensione ciclopica che essi assumono è qualcosa di più di una questione dimensionale: è anche uma questione temporale. E il senso di un tempo in cui uno strumento era un tramite verso il mondo, una protesi semplice, la più semplice di tutte, ma così efficace nella relazione con la realtà, da meritarsi un'attenzione quasi reverente, un rispetto persino timoroso. A questa dimensione fisica, oggettuale, simbolica e immanente insieme vogliono riportare le sculture di Salvatore, che per ottenere il risultato voluto oggi non possono che esibire se stesse - e gli oggetti di cui si compongono - in una scala talmente abnorme, talmente ciclopica da non poter essere ignorata, neppure in un mondo pieno di oggetti, e dove questi, semplici, poveri, originari non vengono neppure non solo guardati, ma neppure visti. Ecco allora che questo “fuori scala”, ammantato anche di una specie di epicità del materiale - il ferro, la fucina, le scintille, il fuoco, il peso, la durezza, una voluta rozzezza dell'esecuzione - per un attimo ottiene l'effetto voluto: uno straniamento temporale che, mettendoci di fronte all'originarietà degli oggetti adombrati nei segni usati dallo scultore - o addirittura coincidenti con essi, e con il loro simbolo, come già è stato detto -, ci rende "'originari', ci fa cioè considerare le cose con uno stupore primordiale, quasi che per guardarle avessimo dovuto sostituirci all'artista nella fatica di costruirle.

Marco Meneguzzo