Le icone del quotidiano di Nicola Salvatore

Da sempre Nicola Salvatore gioca sui due tavoli —osmotici, interferenti—dei nuovi linguaggi, e persino, di conseguenza, dei metalinguaggi e della persistenza-continuità di linfe antiche: quelle trascorrenti lungo i secoli entro una cultura popolar-mediterranea, fatta di saporosa concretezza, di corsività icastica, di irriducibilità all'astrazione preconcetta, o anche solo alla decorporizzazione di quanto è terreno, mondano, e inoltre innervata da un congenito distacco, esprimentesi nella facondia figurale, nell'ironia, come appunto nei dipinti degli anni passati, o invece nella concentrazione sui valori materiali e fisici, come nella nuova stagione qui presentata.
Lasciati i colori, i pennelli e le tele, Salvatore fissa su coperte di lana, libere da intelaiature e cornici, quindi offerte come tali, degli oggetti già dati (non tuttavia trovati, nell'accezione usuale del termine, che l'autore li cerca e quindi li sceglie con ben precisa intenzionalità) e più di frequente rifatti muovendo dall'originale. Si tratta di cose che rimandano ad un immaginario quotidiano, con implicazioni, funzionali e rituali, "basse", come poi il medesimo plasmare, con diretta manualità, i singoli pezzi. La cui ostensione in un magico isolamento attinge peraltro toni da collegare a certi recenti sviluppi, soprattutto nell'arte giovane, di là e di qua dell'Atlantico, dell'area neoconcettuale, con la ripresa d'una direttrice operativa del resto sin dall'inizio frequentata da Salvatore.
A cominciare dalle pitture, dai disegni, dai progetti sul tema iterato della balena eseguiti dai primi anni Settanta, in una situazione di allentamento del rigorismo concettuale affermatosi nel decennio precedente, che s'era rivelato come una via senza ritorno e che ad ogni modo il ventenne artista mai aveva praticato, anche per l'urgenza, in lui, già allora, di quel gusto del dipingere che le intenzioni analitiche rendevano più secco, più controllato, ma non dissolvevano. E che infatti riemerge, più libero e immediato, in opere successive, peraltro mai pur'esse, lungo gli anni Ottanta, anche negli esiti all'apparenza più esclusivamente pittorici, abbandonate solo ai valori del.colore, della pennellata, dell'estroverso darsi all'espressività del segno cromatico. La figurazione non rimanda infatti unicamente all'invenzione, né solo alle apparenze fenomeniche. Invece anche, e sempre, ad un'immagine già data, per cui, con procedimento di matrice pop, le immagini sono in effetti immagini di un'immagine: anche talora di un'immagine dell'arte, come in alcune serie di lavori (dell'82-83) da e su Matisse o Seurat, e più di frequente di un'immagine, stereotipa ma caratterizzata, derivata dalla pubblicità, dalla moda, da certa fotografia. Similare il processo con cui Salvatore ha eseguito, subito prima di queste ultime opere, alcune "sculture" di grande interesse. In esse egli chiudeva singoli oggetti — con connotazioni rinviami, ad esempio, all'eleganza femminile, o, tout court, alla femminilità, in bamboline paludate e persino in manufatti-feticcio relativi a quel mondo, quali le scarpe — in massicce colate di resina, talora geometricamente squadrate, altre volte irregolarmente scheggiate. E tra i "reperti" già comparivano utensili e altri ready-made che ora ritroviamo accampati su queste sue coperte, con un'evidente continuità, ma col ritorno al piano, alla superficie, e quindi alla problematica del quadro, della pittura, affrontata non più solo con un lavoro sull'immagine dipinta, ma, in profondità, sui meccanismi della presentazione-rappresentazione, anche (non però unicamente: si guardino le ombre, rivelatrici di siffatte intenzionalità, ancora, alla fin fine, di analisi sulla pittura) con aggetti e presenze direttamente tridimensionali: non cioè solo con l'illusione dell'oggetto, ma con l'oggetto vero e proprio, tuttavia trasferito dal registro della cosa a quello del-l'immagine, e sia pur di un'immagine che resta nel contempo cosa. Parimenti non va trascurato il fatto che, come già se detto, spesso, e sempre più spesso nel procedere dì queste esperienze, Salvatore non trasferisce direttamente nell'opera l'oggetto, ma lo riplasma, lo rifa. Anzi, talora lo plasma, lo fa, con un ricalco solo apparente -e ingannevole, come sempre l'immagine dell'arte - del dato di realtà. Del che si deve tener conto per non fraintendere come radicale mutamento di rotta questo nuovo, coerente, momento della ricerca artistica dell'autore. E anche per prepararsi a capire i suoi futuri sviluppi, che potrebbero nuovamente mescolare le carte del gioco.

Luciano Caramel